In tutta l’Alta Langa è possibile trovare piccoli o grandi nuclei frazionali abbarbicati a mezza costa, lungo i potenti fianchi dei contrafforti collinari, sulla cresta dei crinali o sull’apice dei rilievi da cui si godono impareggiabili panorami. A essi, fanno corona, in un’intricata ragnatela di piccoli campi, prati e macchie boschive, innumerevoli cascine, cascinali e casotti o ciabot (piccole casette per gli attrezzi e il ricovero notturno) di minore consistenza frammisti a fienili, pozzi, forni e muri di ogni foggia e dimensione. Nascosti tra i “rittani”, sopravvivono all’incuria dell’uomo, agli eccessi del suo bisogno di usare e ammodernare, oltre che agli oltraggi del tempo, le case, i muri, i fabbricati che sono l’ultima testimonianza di una civiltà del vivere e del lavorare ormai scomparsa e dimenticata. Ancora resistono, qua e là, anche scoscesi viottoli e muretti a secco che sostengono strette fasce di terreno, dimora stentorea di viti, orti e noccioli, spesso divorati dalla nuova vegetazione che prende il sopravvento sulle tracce di un’antica fatica degli uomini che avevano strappato quelle stesse terre al bosco e ai cicli della natura.
Così Stefano Musso descrive, magistralmente, le costruzioni dell’Alta Langa nel Saggio introduttivo al volume Guida al recupero dell’architettura rurale, pubblicato dal Gal Langhe Roero Leader.
Cascine, ciabot e muri a secco, tutti costruiti in pietra e tutti tirati su a mano, un sasso dopo l’altro: questo è il patrimonio architettonico della Langa profonda che, oggi, riceve il suo giusto tributo e alcuni importanti riconoscimenti. I muri a secco, in particolare, sono stati riconosciuti dall’Unesco Patrimonio Immateriale dell’Umanità, ovvero la lista di tecniche e pratiche umane che l’Unesco difende perché parte integrante di un bagaglio culturale che non deve andare perduto, frutto dell’ingegno umano tramandato attraverso i secoli.
Nella motivazione dell’Unesco si legge che l’arte del dry stone walling riguarda tutte le conoscenze collegate alla costruzione di strutture in cui le pietre vengono ammassate l’una sull’altra non usando alcun altro elemento tranne, a volte, terra a secco. Si tratta di uno dei primi esempi di manifattura umana ed è presente a vario titolo in quasi tutte le regioni italiane, sia per fini abitativi che per scopi collegati all’agricoltura, in particolare per i terrazzamenti necessari alle coltivazioni in zone particolarmente scoscese.
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Impervia, scoscesa e assai difficile da coltivare è certamente l’Alta Langa, dove corrono migliaia di km di muri a secco, pazientemente costruiti utilizzando la pietra di Langa, presente in grandi quantità in tutta quell’area collinare che dall’Appennino giunge all’Albese e che, al di là del fiume Tanaro, scompare quasi del tutto. L’Alta Langa ebbe infatti origine da sollevamento di antichi fondali marini, dove la pressione era così elevata da compattare finissimi granelli di sabbia fino a trasformarli in roccia arenaria. Il Roero, al contrario, fu anticamente una zona costiera, lambita da un mare ancestrale dove si scaricavano le acque dei fiumi delle Langhe: qui i suoli sono sciolti, leggeri e sabbiosi e le arenarie sono rarissime, spesso in forma di massi erratici interrati.
Le cave di pietra delle Langhe, oggi ben visibili a Cortemilia, fornivano dunque materiali preziosi per il terrazzamento dei declivi, sui quali nascevano orti o vigneti. I muri a secco formavano anche il contrafforte necessario alla costruzione delle vie di comunicazione e spesso venivano impegnati per le fondamenta delle case. Il maggior numero di pietre, dette lòse, lo si otteneva durante lo scasso eseguito per impiantare nuovi vigneti: quando una vena di arenaria veniva scovata si andava di piccone e mazza, per affettare le lòse e creare, al bordo del campo quella che veniva chiamata quera, ovvero una catasta di pietre. Si scavava poi un fosso dove ubicare il muro, fino a raggiungere il tufo marnoso, molto compatto. Su di questo si adagiavano le pietre in fila, privilegiando quelle “quadre”, le più preziose perché si incastravano meglio. Niente malta o cemento, solo terra: era l’arte dell’incastro e il peso del muro a sostenere la costruzione.
IL MAESTRO TOIO
Come tutte le arti, però, il muro ha secco ha i suoi maestri, che il tempo sta consumando. Uno degli ultimi è padre Toio, monaco che a San Benedetto Belbo continua a insegnare la costruzione dei muretti a secco a chiunque abbia la voglia e la pazienza di mettersi in gioco. Ogni estate Toio ospita diversi workshop per conto di organizzazioni no-profit di volontariato (come quelli di IBO), tramandando a giovani di ogni nazionalità i segreti del dry walling.
Toio non è il solo a credere nei muri a secco. Recentemente, il fotografo Bruno Murialdo ha lanciato un appello alla salvaguardia di questi capolavori rurali e nell’ottobre del 2019, a Cortemilia, è stata presentata la Scuola Alta Langa della pietra a secco, voluta dall’Unione montana, che avrà un ruolo fondamentale di coordinamento fra le istituzioni per la valorizzazione dei terrazzamenti in pietra.
CULLA DI BIODIVERSITÀ
Dopo decenni di abbandono e cementificazione indiscriminata, oggi il muro a secco torna protagonista di molte costruzioni contemporanee. Non solo per l’indubbia qualità estetica, ma per la sua importanza “ambientale”. Tra i vantaggi del muro a secco ci sono l’impiego di materiali locali, la migliore tenuta idrogeologica dei terreni e, non meno importante, la culla di biodiversità che il muro a secco garantisce. Al contrario del cemento, il dry walling è un’architettura viva, capace di ospitare al suo interno colonie di insetti, erbe, licheni e piccoli animali preziosi per l’equilibrio dell’ecosistema.
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Post a cura della Redazione di Langa del Sole