Le colline delle Langhe hanno sempre avuto una relazione speciale con la natura. Un rapporto intenso, esclusivo e, spesse volte conflittuale, nutrito di isolamento, difficoltà oggettive di coltivazione e un costante sentimento di precarietà, fonte primaria di leggende, folclore, magia e superstizione.
Il paesaggio dell’Alta Langa, in particolar modo, è sempre stato il risultato di un’accesa dialettica tra ecumene e ambiente selvaggio, tra spazio abitato e animale, tra agricoltura e gestione delle foreste. Per capire più a fondo queste dinamiche, vi proponiamo un estratto dal documentatissimo libro di Giovanni Destefanis Cortemilia, segni e documenti lavoro persone, edito da Araba Fenice. Nel tracciare la storia medievale della capitale della nocciola, l’autore si interroga su quale tipo di rapporto intercorresse tra gli uomini dell’Alta Langa e il paesaggio in cui si erano trovati a vivere, tra marginalità, silvicoltura e pastorizia.
[…]
Nel medioevo Cortemilia diventa certamente una curtis, un insieme di territori, di poderi, edifici, borghi, vie interne di comunicazione, sorgenti, corsi d’acqua ed altro che insieme dovrebbero garantire la vita della comunità che la abita, fornendo-le tutto ciò di cui ha bisogno, dal cibo al vestiario agli utensili. Al centro della curtis un villaggio più grande con uno o più palazzi dove risiede il “dominus” con la famiglia e appunto la sua “corte”, un nucleo di armati per la difesa, una chiesa “signorile”, botteghe artigiane, sarti tessitori fabbri etc. Lì si vive, o si dovrebbe vivere, riducendo al minimo i contatti con l'”esterno” e cercando di difendersi da scorrerie, aggressioni, prepotenze di signori più forti e così via. È un’immagine un po’ romantica ed astratta, perché soltanto in situazioni drammatiche e transitorie, carestie, epidemie, invasioni ci si poteva ridurre a questo genere di economia di sussistenza: in realtà nell’Europa del Basso e dell’Alto Medio Evo non ci fu mai, villaggio per villaggio, cittadina per cittadina, una vera economia dell’autosufficienza. I commerci e gli scambi anche a lungo raggio continuarono, sia pure in forme diverse, spesso più difficili anche per la decadenza delle grandi vie di comunicazione romane, abbandonate e spesso dimenticate o misconosciute. Olio, vino, sale, spezie, tessuti, metalli (indispensa-bili per le armi e per l’agricoltura) continuarono a circolare, nonostante le violenze e le razzie prima gotiche poi saracene e ungare. E Cortemilia, sia pure una Curtis essa stessa, rimase uno dei nodi fondamentali di questa rete di scambi tra Mare Ligure, Appennino, colline, pianure del Piemonte meridionale, certo con un’intensità incomparabilmente minore rispetto a prima. Assieme alla cristianizzazione, dal VI, VII secolo arrivarono le piccole e ancora precarie fondazioni monastiche, e si stabilirono con maggiore sicurezza le diocesi, come quella di Alba (il primo vescovo accertato è Lampadio, di cui hanno tracce nel 499). Dove era possibile sia le abbazie, per molti secoli solo benedettine, sia le diocesi cercavano di tenere i contatti con i centri più piccoli, mantenendovi le prime “famiglie” di monaci, le seconde luoghi di culto, che potevano anche essere edifici molto modesti, capanne addirittura, a protezione di un fonte battesimale. L’atto del battesimo era il primo e più sacro dei riti cristiani, peraltro indispensabile perché si formasse una comunità di fedeli. Per questa ragione le Pievi rurali (“ecclesiae de plebe”) furono le prime a stabilirsi, luoghi dove si amministrava il battesimo assai prima che cominciassero a praticarsi altri riti. Per questa ragione, trovandosi Cortemilia a distanza per l’epoca ragguardevole e disagevole da un centro diocesano, non è impossibile che, nel luogo stesso ove ora sorge la Pieve Romanica di Santa Maria, decisamente e nettamente al di fuori del nucleo urbano originario, si celebrassero battesimi già nel VII, VIII secolo. Allo stesso modo non è improbabile che in quei secoli molto difficili, almeno fino a fine millennio, una o più comunità monastiche raccogliessero adepti e seguaci, di ambo i sessi, anche nel nostro territorio. Si tratta, nel silenzio assoluto delle fonti, di ipotesi ma non inverosimili. Anche perché, sempre per il principio delle “persistenze” urbanistiche, nella toponomastica e nel trattamento dell’ambiente agricolo, alcuni indizi fanno supporre che ciò, a Cortemilia sia veramente avvenuto: Pieve di Santa Maria, Convento Francescano, piazze e luoghi urbani, strade e sentieri lastricati lungo le pendici delle colline, terrazzamenti.
Quale agricoltura?
Tuttavia, come concordano diversi storici, durante la decadenza e successivamente alla caduta dell’Impero Romano tutta la popolazione europea subì per secoli una diminuzione consistente, anche per diverse epidemie come quella del VI secolo, la cosiddetta “Peste di Giustiniano”. Il Basso Piemonte non deve certo aver fatto eccezione. «Silva infructuosa roncare…», «et per lungo in silva quanto runcare potueritis de terra bona…». Queste espressioni, relative a monasteri e contadini della pianura padana, sono, nel loro sgrammaticato latino, emblematiche di lunghi secoli del Medioevo rurale. Nei primi secoli il paesaggio era dominato dalle foreste, che ricoprivano gran parte del continente. Nei paesi mediterranei, per la verità, il clima secco e il degradamento del suolo avevano in molti casi impedito che rinascessero i grandi boschi distrutti nell’antichità.
In Italia il Piemonte era ricoperto di boschi, ma lontana dall’essere abbandonata a sè stessa, la foresta, almeno nelle zone più vicine ai nuclei abitati, occupava nella vita del tempo un posto economico di rilievo. Gli uomini la vedevano in modo abbastanza diverso da noi. I pinastri erano considerati alberi da frutto. Le pigne erano particolarmente adatte per accendere il fuoco e in Provenza si facevano seccare i semi che servivano come cibo. L’albero più pregiato era tuttavia la quercia, che forniva ottimo legname da costruzione e cibo per i maiali. Legno pregiato era anche quello del castagno, i cui frutti fornivano in molte regioni la base dell’alimentazione. E nell’Alta Langa il castagno e la quercia erano e sono le specie arboree più apprezzate ancor oggi. Nella foresta si potevano raccogliere i frutti, si poteva pescare negli stagni e nei torrenti e cacciare la selvaggina. Lì si trovava il miele, unica sostanza edulcorante del tempo. Ma la foresta era soprattutto preziosa per il pascolo, particolarmente per quello dei maiali, ghiotti di faggiuole e di ghiande. La carne di maiale, il lardo soprattutto, era parte essenziale del nutrimento. Il legno, infine, oltre che materiale da costruzione, era l’unica sorgente di calore contro il freddo invernale «che minacciava gli uomini nelle loro fragili capanne, spesso fatte solo di frasche intrecciate. La terra diventava quasi l’unica fonte di sussistenza, guadagno e ricchezza» (P.J. Jones, Per la storia agraria italiana: lineamenti e problemi, «Rivista Storica Italiana», LXXVI (1964) – p.20).
Ma la decadenza era grave anche nelle campagne, per le quali le fonti documentano l’abbandono di centri abitati, l’avanzamento di agri deserti e di inulti, il che fa supporre un arretramento della migliore agricoltura romana verso forme più tipicamente medievali di agricoltura «estensiva» e la conversione, in certe zone, anche sotto l’influenza germanica, dell’agricoltura in pastorizia. Non è di quel periodo, anzi di parecchi secoli dopo, forse nel XVI secolo, la visita pastorale compiuta da un vescovo albese nella nostra Langa, il quale poi annotò «Vidimus silvestria loca et magjs silvestres pastores», vedemmo luoghi selvaggi e pastori ancor più selvaggi. Segno che la foresta medioevale doveva ancora essere presente e che la pastorizia dei secoli prima del Mille fosse una pratica ancora diffusa. Nel documento che abbiamo citato, l’assegnazione da parte dell’imperatore Ottone I di Sassonia al fedele Aleramo, di sedici “corti” o “curtes” situate tra il Tanaro, l’Orba e il mare della Liguria, tra cui appunto “Curtemilia”, del 967, si sottolinea che questi, alla fine del X secolo, erano “deserta loca”, “luoghi deserti”, ovvero, si intendeva, più che privi di popolazione, praticamente non coltivati. È lo stesso Ottone ad annotare in una memoria trascritta da un amanuense, appena tre anni dopo: «Transivimus per deserta Langharum, et relinquimus ea sine tributo», passammo attraverso i deserti delle Langhe e li lasciammo senza riscuotere tributi.
I successori di Aleramo, in particolare il nipote Bonifacio, assunsero il titolo di “Marchesi del Vasto”, anche se tale appellativo venne dato loro in seguito: Vasto cioè Guasto, devastato, deserto. Mentre possiamo notare che le sedici “curtes” non costituiscono un territorio unico, cosa non rara nel sistema feudale e che ancora adesso fa impazzire storici e genealogisti, la donazio-ne ad Aleramo era finalizzata al proposito che ponesse, lui e i suoi successori, rimedio alla “desertificazione” e alla devastazione. Cosa che avvenne nei secoli successivi all’anno Mille, come un po’ ovunque in Europa, per la relativa stabilità politica e la maggior sicurezza introdotte dagli Ottoni.
Il libro
Giovanni Destefanis
Cortemilia, segni e documenti lavoro persone
Edizioni Araba Fenice
L’estratto è liberamente consultabile sul sito del Comune di Cortemilia
Post a cura della Redazione di Langa del Sole