Per Fenoglio il paesaggio è corpo vibrante, sangue, ossa, colonna vertebrale. Lungi dai dagherrotipi da cartolina, da certo impressionismo macchiaiolo e, soprattutto, lungi da visoni idilliache o superomistiche, le Langhe di Fenoglio sono un rizoma di terminazioni nervose, poesia dello stare e dell’essere qui e ora, ma anche del trascendere, in corpo e spirito: del sublime come azione di sublimazione, ovvero trasformazione di stato.
LA VASTA MORTE
Ogni idillio è fragile in Fenoglio, così come ogni concessione al sentimentalismo. La neve, che per molti autori ora placa ora sublima l’animo, nelle pagine del Partigiano Johnny dedicate alle prime esperienze partigiane con “i rossi”, rivela tutta la sua immobilità mortifera. Il capitolo XI svela un rapporto controverso con la neve: da un lato, la bianca coltre è un cuscinetto che impedisce a fascisti e partigiani di scontrarsi a viso aperto. Dall’altra è il terribile manifestarsi della morte perché, rotte le distanze tra le fazioni avverse, la neve diviene un gelido sudario.
Su di un «campo di neve vergine» si consuma il dolore della prima vittima della sua brigata. La scena è un racconto indiretto, all’interno di un paesaggio dove il biancore è aumentato dall’albedo della nebbia, prodromo di uno scontro che segnerà un altro primo sangue: quello versato da Johnny in qualità di carnefice, a scapito di un giovane fascista.
Johnny non poteva scacciarsi dalla mente il racconto del Biondo della morte del primo caduto della brigata, trampling in un campo di neve vergine, andato inconsapevolmente incontro a fascisti e tedeschi marcianti su strada spalata. Vi si era trovato come un alato nel miele, così sicura preda che quelli avevano addirittura esagerato nello sbagliar mira, lo colsero quando furono stufi del gioco, il suo sangue rosso sulla neve era vistoso, quasi artificiale come la granatina che imbibe il ghiaccio pesto*.
Nell’accecante biancore del tutto, la neve assume un significato “oscuro”: è nudità delle cose, perdita dell’innocenza, candida rivelazione del gioco della morte. Non eleva lo spirito, ma lo conduce al suo confronto più terreno, all’esperienza della violenza sull’innocente, alla più «ferma delle morti» dirà Fenoglio poco dopo, che macchia l’immacolato manto come la «granatina che imbibe il ghiaccio pesto». La neve, «otturante» il paesaggio, è spettatrice della «vasta morte»(come dirà nel capitolo XXXV) che la guerra mette in scena. Muta di fronte alla fine del partigiano, muta «nel bruente silenzio» del successivo scontro a fuoco, dove sarà Johnny a uccidere.
Nella loro ferocissima quiete, i cristalli di neve si innalzano a coro greco della tragedia-guerra, accolgono e vivificano il disegno rosso sangue della Nera Signora, senza poterlo cambiare. Il paesaggio innevato si contrae in immobilità densa di spaventosi presagi, di cui ci si può liberare solo con la “morte della neve stessa”, ovvero con l’arrivo della primavera.
Non è un caso che, poche pagine più avanti, prima di sparare, Johnny si sdraierà a terra in un punto sgombro dalla neve. Assieme al compagno Tito, vagheggerà la primavera, iniziando con essa un «dialogo» inconsciamente taumaturgico eppure volontariamente esorcistico della violenza
Johnny e Tito si stesero fianco a fianco, in un riquadro fra due tronchi, sgombro di neve, sentirono il terreno soffice e dolce, senza troppa cedevolezza, il terreno ideale per stendercisi a un primo dialogo con la terra di primavera*.
L’ESILISSIMA SALVEZZA
La neve, materia di cielo in grado di agire sulla conformazione dell’orizzonte, sull’ecologia dello sguardo e la natura delle cose, è sempre descritta da Fenoglio attraverso la potenza di sensazioni fisiche, più che paesaggistiche. L’esperienza della neve è un’urgenza di fisicità: prima di essere vista, è percepita attraverso il contatto con i piedi nudi, la colonna vertebrale, fino alla mente tumultuante che ragiona sulla precarietà del vivere e poi, placata dalla stessa raggelante certezza della neve, sul senso ultimo delle cose, come in una purificazione per effetto del freddo, una condensazione al contrario.
La porta si spalancò e prima che i suoi occhi la vedessero i suoi piedi nudi affondarono nella neve, già alta un palmo, fresca e soffice. L’aia sotto neve era deserta e amica, tutto il mondo immerso in una pace celeste ed in un tale silenzio da poterci quasi cogliere l’atterramento di ogni singola falda di neve. Il freddo che colonnarmente gli saliva dai piedi aveva immediatamente spento il tumulto della mente e del sangue, ed eccolo lì a sorridere, a lasciar pendere il cinturone delle pistole lungo il suo ventre nudo, a muovere impercettibilmente i piedi nelle fredde ma così cosy nicchie di neve. Sorrideva*.
Siamo al capitolo XXXV del Partigiano, quando ormai gli scontri con i fascisti sono all’ordine del giorno. La vita partigiana si è rivelata nelle sue luci e ombre, nella drammatica ineluttabilità di un conflitto che supera la stessa comprensione dei combattenti. La neve, in questo caso, cade dopo il rapimento di un soldato repubblichino, che Johnny vuole scambiare per l’amico Ettore. La sua vista si mescola alle speranze personali, da vasta morte diventa promessa di «esilissima salvezza» (cap. XXXV), serenità dell’animo agitato, annuncio di una pace che, se gli uomini non sanno stipulare, la neve forza ad accadere, almeno momentaneamente. Sono questi alcuni delle descrizioni più vivide del paesaggio innevato, sempre e comunque esperite in un linguaggio carico di densa sensorialità.
[Johnny] si svegliò e si levò nell’alto mattino, mai aveva fatto così tardi. Uscì con una grande aspettazione della neve, non intaccata dalla notturna conoscenza, la neve era cresciuta al ginocchio, perfettamente cristallizzata e moderatamente brillante sotto il sole embrionale. Allegramente, sportivamente solcò la neve fino al cancello e riuscì all’angolo per una vista d’insieme. Tutto il mondo collinare candeva di abbondantissima neve che esso reggeva come una piuma. Assolutamente non sopravviveva traccia di strada viottolo e sentiero e gli alberi del bosco sorgevano bianchi a testa e piede, nerissimo il tronco, quasi estrosamente mutilati. E le case tutt’intorno indossavano un funny look, di lieta accettazione del blocco e dell’isolamento. Pareva un giorno del tutto estraneo, stralciato alla guerra, di prima o dopo essa*.
*Tutte le citazioni sono tratte da Romanzi e racconti, a cura di Dante Isella, Einaudi-Gallimard, Torino 1992
Post a cura della Redazione di Langa del Sole