Ravioli delle Langhe

Vitel tonné, flan con la fonduta. Carne battuta al coltello, profumi di aglio, limone, Tajarin, «un bel piatto abbondante», «li vuole burro e salvia o al sugo?». Agnolotti, gnocchi, «facciamo ancora un giro?». E poi il brasato a fette spesse, le acciughe e il baccalà, unici pesci che abbiano mai raggiunto le spiagge delle osterie di Langa.

 

Osterie, lo dice il nome. Deriva dal latino hospes, sostantivo affascinante perché ricco, stratificato, ambiguo, come la vita. Significa «ospite», colui che è ospitato, che «viene ricevuto». Ma anche, «oste», albergatore, il quale «con accoglienza e gentilezza» invita il «forestiero» a casa sua, trasformandolo in «amico».

«Oste», «accogliente», «forestiero» e «amico». Sono queste le meravigliose acce­zioni che rivelano la natura profonda delle osterie.

 

Luoghi carichi di umana relazione, la cui importanza eguaglia fino a superare la dimensione del cibo. O meglio, qui il cibo dimostra sempre la sua relazione con le persone e la tavola, lontani anni luce dalle esperienze edonistiche e superomi­stiche di certa cucina contemporanea.

Le osterie sono uno scambio continuo tra pietanze e com­mensali, cuochi e sala, avventori e ambiente: in una parola sono «atmosfera», quella quintessenza di autenticità che ricerchiamo sempre in questi luoghi.

Lo sapeva bene Fenoglio, che ci ha lasciato pochi ma magistrali affreschi delle oste­rie e delle locande della Langa profonda. Si fissano subito nella mente La Censa di Placido a San Benedetto Belbo e soprattutto l’osteria Da Madama, a Rocchetta belbo, «la casa meglio illuminata di tutto il paese»:

Il locale era zeppo, di gente che non dava il passaggio nemmeno a sfondarle la schiena. La tavo­lata del coro stava nell’angolo più oscuro. Cantavano alla cima della voce e del sentimento, per­dutamente, abbrancandosi al tavolo, strabuzzando gli occhi, musando come buoi tra le bottiglie e le lattine dei biscotti.
Beppe Fenoglio, Ma il mio amore è Paco.

 L’atmosfera delle osterie è qualcosa che ha a che fare con la dimensione del paesaggio umano, la sua continua e atavica necessità di fare comunità.

Alle osterie si perdona, talvolta, il lato estetico, in funzione di quello etico: unire le esperienze di persone solitarie, immerse in un ambiente collinare spesso sperdu­to, in un «coro»: il canto che il vino e le chitarre – o anche solo la voce avvinazzata – trasformavano in canzone da osteria, squisitamente popolare.

Oggi non tutte le osterie hanno mantenuto questa dimensione collettiva. Alcune sì, altre meno. Si sono evolute. Si sono impegnate al massimo per recuperare le ricette, elevando il cibo a custode del passato e della tradizione. Forse non si canta più in tutte le osterie, non in tutte scorrono fiumi di vino, non si scommette più a carte perdendo fortune e non in tutte l’oste vi tratta a pesci in faccia, malmenando gli avventori molesti. In alcune, qualcosa di quel passato rimane: l’amore per il territorio e le materie prime, la genuinità del trattamento, il senso sempre attuale della famiglia. In fondo, come scrive Luca Iaccarino, giornalista gastrono­mico e sfegatato supporter delle osterie, qui tutti sono i benvenuti: gourmet, food blogger, giovani, vecchi, vegetariani, imberbi e rimbambiti, carnivori e vegani. Con un’unica eccezione: gli astemi.



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